mercoledì 21 marzo 2012

Poche parole


EUREKA!!! ALLELUJA !!! EVVIVA!!! URRA'!!!

GRAZIE !!!


Non so come ho fatto, ma ci sono riuscito!

martedì 20 marzo 2012

Nota di servizio

Non so se riesco a postare, poiché Blogger mi ha dichiarato guerra e io ho solo una pistola ad acqua per difendermi.
Da alcuni giorni non riesco a leggere i vostri post per un saliscendi continuo arbitrario dei testi; stessa cosa per l'inserimento dei commenti.
Avevo pensato che il pc fosse andato o fosse stato impestato da qualche virus, ma tutto il resto funziona alla perfezione (gmail, edicola, bollette, bancari...).
Sovente nelle visite ai vari blog mi si blocca addirittura il pc e per uscire devo spegnere di brutto l'aggeggio.
Ho la bacheca di Blogger su Explorer (8 o 9, non lo so), nella pagina di Google: vorrei portarla su Google Chrome che mi senbra più stabile, ma non c'è verso di riuscirci.
Ho letto che Blogger sta modificando la piattaforma, per cui per qualche giorno ci sarebbero stati problemi, ma i giorni passano e qui la cosa peggiora.
Se qualche anima buona mi può dare suggerimenti, e non riuscisse a entrare nei commenti, può mandarmeli su
pagattonero199@gmail.com
Un saluto a tutti e un grazie a chi mi dà una mano.

mercoledì 14 marzo 2012

Battere il chiodo...


I chiodi per farli penetrare bisogna batterli, se possibile con un martello; in mancanza di questo arnese anche una pietra va bene; se non ci sono pietre, anche con un pugno, con la testa, con i denti, si può infiggere un chiodo, purché ci sia la volontà di piantarlo.
E anche con le parole, la presenza, l'insistenza, in questo caso anche scassando...
Il chiodo che dobbiamo piantare deve entrare nelle teste di chi si deve (dovrebbe) interessare alla liberazione di questi nostri connazionali.
Senza aspettare che siano altri a tentare. Quando l'hanno fatto , un ragazzo è morto, e, a questo punto, il sapere perché o percome è diventato un fatto puramente burocratico.
Questo evento ha solo riacceso l'interesse dei media, fino a poco prima ignoranti questa situazione.
Vorremmo, chiediamo, che di queste persone ci ricordassimo, adesso, che SONO nostri connazionali; Rossella in particolare poiché portatrice solo di bene, e Maria Sandra già solo per il fatto di essere donna, e gli altri sequestrati, gente di mare, in mare per lavorare.
Vederlo tornare in patria chiuso in una bara, onorate le sue spoglie, presenti le autorità in veste di becchini, per sentirci dire che ERA un italiano non corrisponde alle nostre aspettative.
E' giusto, doveroso, che la diplomazia si muova a tutto campo, coinvolgendo tutte le potenze della terra, per riportare a casa persone, nostri connazionali, che, a causa del loro mandato (ingaggio?) sono finite nei pasticci.
Non chiediamo la luna: vorremmo che a coloro che lunedì 19 marzo qui ricorderemo fossero date le stesse attenzioni; anzi, per quanto possibile, qualcuna in più, visto che tutte e tutti non portavano armi.
Non ci piace pensare che "anche" fuori dai confini gli italiani indifesi siano accantonati...




Per saperne di più: http://iviaggidimaya.wordpress.com/

lunedì 12 marzo 2012

'Coming out' del gatto

Coming out: per fregare qualcuno che, in futuro, possa a sua volta fregarti con un outing a tradimento, magari in un momento di massima ascesa verso non so cosa. Ci sono un sacco di fatti, per cui un persona sente la necessità di confessare all'universo una sua pecca, di scoprire un suo scheletrino nel classico armadio (nel mio caso, un comodino basta e avanza); si potrebbe andare dalle pippe in gioventù alle dita nel naso per pulire, accuratamente, le canne fumarie. Ma sarebbero coming out scontati, a tal punto che dovrebbe fare coming out chi non ha mai messo in atto questi delitti. Procedo nella confessione. Abbiate pietà di me.


Non ho "fatto" il militare.

Non che il fatto di partire per il servizio di leva fosse tra le maggiori aspirazioni della mia (allora ancora breve) esistenza, ma quando arrivava una certa cartolina che ti comunicava la tua "vocazione", entusiasta o meno o per niente, bisognava rispondere.
Altrimenti erano guai.
La chiamavano "renitenza", e se non sapevi il significato del termine te lo facevano spiegare da chi, nei secoli fedele, a quella chiamata aveva risposto, e l'aveva pure sposata.
Per il lavaggio mentale era operativo un centro di recupero renitenti, a Gaeta, che manco sapevo dove fosse.
(Ci sono stato, venticinque anni dopo, e mi è sembrata una bella cittadina, civile e ordinata; all'epoca, Gaeta veniva illustrata come una fortezza in cui "perdete ogni speranza...").
Ero a cavallo tra il diciottesimo e il diciannovesimo anno di una vita che, se non proprio da caserma, era stata comunque vissuta tra quattro mura, che, per quanto simboliche, mi avevano costretto ad una esistenza limitata.
Assai.
Per cui non sarebbero stati altri diciotto mesi a schiacciarmi, o schiantarmi, o sfiancarmi.
Avrei solo dovuto abituarmi ai "signorsì" e ai "signornò", che, in effetti, non rientravano nei precedenti ordini del giorno.
Dunque: cartolina, "presente", visita medica...
Un po' umiliante, devo ammetterlo, per me che ero stato abituato a ritenere un corpo nudo a rischio e fonte di peccato. Peccati che, comunque, scontavo amaramente con trepateravegloria, qualunque fosse il numero dei delitti commessi.
Eravamo una cinquantina di vermi, nudi come neonati, in fila indiana, un tizio seduto a una scrivania, in camice bianco sovrapposto alla divisa, ritirava la cartolina, scriveva qualcosa in una specie di registro, ci squadrava dai capelli all'alluce e... "avanti un altro".
Gabinetto medico: denti, occhi, cuore, spalle, testicoli, gambe, braccia, udito... una vivisezione... dal vivo, appunto.
Molto sbrigativa: l'impressione era che si trattasse di un primo appello, la visita medica un atto burocratico da sbrigare alla svelta, più che altro per registrare la presenza fisica delle persone 'chiamate'. Chi c'era veniva protocollato, chi non c'era diventava ricercato, come renitente al servizio di leva.
"Avanti un altro".
Era un periodo che non buttavano niente, come nel maiale: damigiane, bottiglioni, bottiglie, andava tutto bene. Anche i tappi.
Infatti: abile, arrolato.
O, meglio, "abbile", arruolato.
Nell'insieme sembrava una catena di montaggio, tipo quelle di cui avevo sentito parlare, situate nel capoluogo, in cui un certo Valletta aveva visto nelle 'catene' il massimo dell'efficienza per la produzione di autoveicoli e, allora, pure di frigoriferi e carri armati.
E c'era pure un modulo in cui, noi candidati a servire la patria, potevamo indicare la scelta del corpo in cui svolgere tale servizio obbligatorio.
La scelta era limitata a tre: esercito, marina, aviazione.
Non sapevo, e non so, volare, aeronautica esclusa; non sapevo, e non so, sciare, esercito escluso per via degli alpini; sapevo, e so, nuotare, quindi marina come scelta obbligata..
Per dire dell'ignoranza: la marina, allora, prevedeva ventiquattro mesi di ferma contro i diciotto dell'esercito, per cui mi ero affibbiato sei mesi in più di gabbia.
Ma, tanto, lo sbaglio di scelta era stato subito dimensionato da voci di corridoio che avevano sussurrato: un altro branco di pista pauta (per i "civili": fanteria, ma non quella d'élite, quella che per diciotto mesi avrebbe pestato fango su e giù nei cortili di una caserma).
Ero preparato anche a quello: 'no-duè 'no-duè 'no-duè passo passo cadenza per fila sinist sinist alt at...tenti ri...poso avanti-marsh dietro fro...nt...
Ci avevo fatto colazioni pranzi e cene con quella musica...
Fino ad allora; diciotto mesi in più mi avrebbero fatto sorridere l'ombelico.
Per addolcire la situazione facevano girare la barzelletta che "chi non è buono per il re, non lo è per la regina".
Sapevo il significato vero, ma comunque trovavo quella 'pubblicità' fuorviante.
Intanto mi lasciava perplesso il fatto di "essere buono per il re": in teoria se fossi andato bene a lui, col cavolo che sarei arrivato alla regina.
Inoltre sapevo benissimo che il re, con regina al seguito, era partito da Brindisi per una crociera in Atlantico, e difficilmente sarebbe tornato in tempo sia per provare quanto "fossi buono", né se al suo rientro sarebbe stato ancora in grado di 'assaggiarmi'.
Nella "mia" caserma, avevo proseguito il mio addestramento lavorativo, e al servizio della patria non avevo avuto proprio tempo di pensare.
Era prossimo il momento di spiccare il volo, di assaggiare (assaporare era un pensiero troppo forte, già allora) la libertà, di vedere il mondo da una prospettiva diversa da quella chiesa-laboratorio-cortile.
Era arrivata una proposta di lavoro da una cittadina, capoluogo di provincia, ma tutt'altro che megacittà; una di quelle città "a misura d'uomo", come si dice, un paese divenuto città senza perdere le caratteristiche tipiche di un paesotto.
Non ne ero entusiasta, lo confesso.
Ma d'altra parte a un trampolino di lancio non è possibile andare a chiedere se è di frassino o di quercia: se tiene arrivi a fondo valle, se si rompe ti sfasci.
Per ignorante (nel senso di ignorare proprio tutto della vita, fuori) che fossi, mi ero fatto una specie di piano: resto là, vado militare, e mi trovo un posto nel capoluogo, quello grande, che oltre alle maggiori possibilità di lavoro, mi avrebbe consentito di aprire meglio gli occhi sul mondo.
Detto fatto, in attesa della seconda chiamata alle armi, mi ero sistemato in una camera ammobiliata (per gli studiosi di economia domestica: settemila lire al mese, comprensive della biancheria della camera , uso bagno-doccia; non c'era il riscaldamento, e in quella pur splendida cittadina d'inverno faceva un freddo boia, ma non per modo di dire. Mi era capitato di dormire con tre coperte e il cappotto addosso. Come mi era stato descritto l'inferno, lo avevo agognato...), al posto di lavoro andavo a piedi, sotto i portici, attento solo ad evitare le deiezioni canine disseminate generosamente lungo il percorso.
Un po' alla volta mi ero fatto un giro di compagni, alcuni solo tali, altri divenuti amici.
Pranzo e cena in una trattoria, manco a farlo apposta "Degli amici": 350 lire a pasto, primo secondo contorno frutta o formaggio o dolce, un quartino di vino o una birra.
Era di un ex partigiano, che nelle valli prossime alla città aveva passato una parte della sua vita, ne aveva viste di cotte e di crude, e le raccontava, evitando le rappresentazioni granguignolesche che non avrebbero giovato a chi le aveva subite e avrebbero potuto turbare gli animi sensibili, inducendoli alla rinuncia del pasto.
(A margine: eravamo a tre lustri circa da quegli avvenimenti, e chi li aveva vissuti già si limitava nel raccontarli "perché non tutti erano pronti a ricordarli". Adesso?).
Nel giro delle amicizie acquisite c'erano anche dei tenentini, ufficiali di complemento, che, in attesa dello sbroglio della formalità militare, svolgevano il servizio in una caserma CAR prossima alla città.
Anche loro in attesa di un "la" dalla vita.
Frequentandoli avevo fatto una specie di pre-addestramento militare.
Da loro avevo appreso alcuni "trucchi" della vita in divisa. Per esempio: un ufficiale in borghese non deve essere salutato militarmente dai soldati in divisa. Regolarmente, seduti fuori da un bar o a spasso sotto i portici, tutti i militari di passaggio, obbligatoriamente in divisa, scattavano nel saluto, cui gli amici rispondevano con un cenno della mano, che, più che un saluto, era un "al rientro ti scasso", cps e cpr in vista.
Non erano fanatici, il servizio militare era una rottura di piani anche per loro, e l'essere riconosciuti in abito civile li mandava in bestia. Si trattava di diplomati e laureati che dalla vita si aspettavano altro che insegnare ai fantaccini a marciare e dire signorsì.
Ritorno sull'ignoranza: fossi stato meno ignorante, avrei saputo che la seconda chiamata aveva dei tempi precisi, difficilmente prorogabili.
E questa chiamata non mi era arrivata.
La tromba della sveglia aveva suonato in occasione di elezioni comunali previste in quella città.
Avendo ricevuto un'educazione civica al midollo, sapevo che votare più che un diritto era un dovere.
Oltretutto sarebbe stato il mio primo voto.
Quasi paragonabile alla prima volta di una ragazza.
Imbecillinamente, non avendo ricevuto l'invito ad andare a votare, ero andato all'anagrafe del comune, per chiedere il documento.
Non risultavo nelle liste elettorali.
Cazzo! (lo dico oggi che si è abbondantemente sdoganato anche per indicare sconcerto, ma allora questo termine non era previsto nel parlare quotidiano).
Comunque, non risultavo iscritto in quell'anagrafe.
Vabbé, dov'era il problema: iscriviamo.
Provenienza?
Non c'erano i computer e neanche i piccioni, che avrebbero fatto prima, ma bisognava verificare al comune di provenienza la veridicità delle mie indicazioni.
Dopo qualche giorno era arrivata la risposta: negativa.
Là non risultavo residente (ma ci avevo fatto la visita militare, bicazzo!), qui non mi facevano la carta d'identità per poter votare...
Non che fossi disperato, visto che di quelle elezioni me ne fregava quanto, a questo punto, un tricazzo, però volevo, volevamo con l'anagrafe, capire cosa era successo.
Visto dopo, un fatto semplice: al momento della visita di leva risultavo residente nel comune "di provenienza".
Tra la visita di leva e le votazioni del comune sede del posto di lavoro, c'era stato il secondo censimento della popolazione italiana nel dopoguerra.
Al tempo della visita per l'arruolamento io ero residente in una (specie di) caserma, in cui, forse, più che i nomi contavano i numeri. Al momento dello spicco del volo, non mi era stato spiegato che avrei dovuto iscrivermi in un altro nido, e non lo avevo fatto.
I moduli del censimento mi avevano dato "assente" in quel comune.
I moduli del nuovo comune mi avevano ignorato, poiché per loro "inesistente".
Ero apolide.
Ero nessuno.
E, non fosse stato per il mio "senso civico" del quadricazzo, forse lo sarei ancora.
Ancora oggi, che non gioco a carte ma bevo vino, mi chiedo: ero a posto con il libretto di lavoro, incredibilmente per quei tempi al momento della pensione mi sono trovato tutti i contributi versati, ho avuto un problemino e sono stato ricoverato in ospedale qualche giorno senza intoppi burocratici, abitavo in una camera in affitto da una signora vecchio stampo, avevo trovato amici e compagni... ma chi, quinquicazzo!, mi aveva fatto uscire dallo stato apolideo?
L'ignoranza, poco che ci avessi ragionato allora, oggi i monti e i mari mi farebbero un baffo.
Ma, oltretutto, con questa fesseria, avevo anche smosso le acque del distretto.
Non ero renitente, poiché non ero esistito, ma una volta re-iscritto non potevo sfuggire al destino infame.
Ero risultato un caso un po' anomalo per il mini distretto locale, per cui ero stato "invitato" a recarmi al capoluogo grande.
Distretto, ospedale militare (forse per verificare che non fossi un alieno), ancora distretto: la mia leva era ormai fuori dal giro, quella in corso era troppo in soprannumero, ero stato mandato a casa in attesa del congedo (illimitato provvisorio, in caso di necessità sarei stato richiamato in servizio, con l'obbligo di presentarmi entro tot ore presso il distretto di).
Il congedo mi era arrivato dopo lo scadere del periodo di ferma in corso.
Nel frattempo mi ero trasferito nella grande città.
Della piccola ho tutt'ora un gran bel ricordo e ancora molti amici.
Potrei chiudere qui e beotamente godermi un "finalmente!" giusto e meritato, ma sono felinamente sadico e continuo col racconto di un episodio che mi ancora oggi mi diverte ricordare.
Al mio arrivo nella grande città ero andato a lavorare in una boita, una piccola ditta, sei, occasionalmente sette, dipendenti.
Uno di questi era il capoccia, amante sottobanco della titolare.
Era stato militare, nientepoppodimenoché, nei granatieri.
Di questa, pur lontana, esperienza, non perdeva occasione, nelle pause ma anche durante il lavoro, di raccontare gli episodi della vita di caserma, orgoglioso e quasi rimpiantoso di quell'esperienza.
Di solito lo ascoltavamo, divertiti più che interessati.
Un giorno, dopo l'ennesimo episodio raccontato, se ne era uscito con un:
"Ma ti, Pierin, t'las falu 'l suldà?".
Allora non avevo ancora la saggezza felina che oggi mi è propria, ero un pitu.
Mi stavo asciugando le mani per fine lavoro, e, passandogli sotto il naso, gli avevo sparato:
"Sun pà piciu!".
"Cuma saria a dì, che mi che l'hai falu sun 'n piciu?".
"Mi l'hai nen dì che TI t'ses 'n piciu, l'ai mac dì che MI sun nen piciu".
"Ah, menu mal, a mancaria 'd pieme del piciu da 'n rifurmà".
Non so se, poi, avesse rimuginato il bolo, fino alla chiara conclusione del discorso.
Forse sì, perché del suo servizio militare non aveva più parlato.
O forse no, sarà ancora in attesa che dal comando gli arrivino indicazioni sul quesito se fosse o non fosse piciu. E non sa che, seguendo la moda, anche la sua domanda è andata in prescrizione.

Per la parte dialettale, glossario: pauta = fango; pitu = tacchino (gli amici dicevano che ero come un tacchino, per come mi incazzavo con facilità); piciu = qui vale per scemo, ma è fratello di 'pirla' e 'belin', con quest'ultimo che è stato promosso a interiezione, mentre piciu e pirla sono rimasti solo membri, soppiantati dall'italiano 'cazzo', già citato. Il dialetto l'ho scritto, più o meno, come si parla, per semplificarne la comprensione.